“Tenetevi, o antiche terre, la vostra vana pompa – grida essa [la statua] con le silenti labbra – Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre coste affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata”. Queste parole sono incise sulla base della famosa Statua della Libertà che domina – monumentale e fortemente suggestiva, nei suoi oltre novanta metri complessivi, considerando il basamento – la Liberty Island sulla baia di New York. Altera e splendente, la donna togata tende il braccio destro, innalzando verso il cielo una fiaccola: è il fuoco perenne e luminoso della Libertà. Propriamente questo il nome della statua: “La libertà che illumina il mondo”; e della vittoria sul dispotismo parlano simbolicamente quelle catene spezzate che giacciono ai piedi della Signora. Nell’altra mano, ella tiene la tavola della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, proclamata il 4 luglio 1776. Il monumento venne regalato dalla Francia all’America, a suggello dell’amicizia fra le due nazioni. Costruita da Frederic Auguste Bartholdi, con la collaborazione dell’ingegner Eiffel, venne trasportata pezzo per pezzo, attraverso numerosi viaggi, da navi che partivano dall’Europa. Il significato originario dell’opera è chiaramente quello esplicitato dal suo nome. Tuttavia, da sempre, un altro – e non meno potente – messaggio simbolico “arriva” dalla sua collocazione all’entrata del porto di New York, tra il fiume Hudson e la baia di Manhattan. Proprio là dove, fin dalla metà del XIX, approdavano i migranti da ogni dove, alla ricerca di una vita nuova negli States. Nella sua postura assertiva e trionfante, la nobile donna era forse la prima immagine rassicurante che essi vedevano. Sembrava trasmettere un messaggio di accoglienza. Del resto, erano attribuite proprio alla a lei – alla statua – quelle splendide parole incise sul basamento. Le aveva scritte la poetessa Emma Lazarus sull’onda delle emozioni che aveva provato visitando i miseri quartieri vicini al porto, ove gli stranieri appena sbarcati venivano emarginati in quarantena per ragioni sanitarie. Il sonetto s’intitola “The new Colossus” e apprezziamo quanto sia artisticamente meraviglioso l’incontro fra scultura e poesia. Ancora oggi, la Signora sembra accogliere. Se proviamo a immaginare, siamo quasi in grado di avvertirlo anche noi , quel messaggio di apertura nel quale i nostri migranti di allora – stipati come adesso lo sono i migranti che arrivano, più di cent’anni dopo, sulle nostre coste – dovettero confidare quando approdavano su quel confine d’acqua in terra d’America . La possibilità di una vita nuova e diversa in un mondo nuovo; il sentimento del passaggio fra il “prima” e il sogno del “dopo”. Si trattava dell’evocazione del futuro, da parte di una nazione giovane che si stava costruendo, che voleva crescere e che era disposta ad accogliere e integrare nuova gioventù, nuove e fresche energie, entusiasmi di “Avvenire”. Una nazione che si proponeva, anche per ragioni demografiche, come una nuova patria per nuovi figli. Tuttavia, per fattori storici dovuti alla immigrazione verso gli States a quell’epoca e per la sua collocazione all’entrata del porto di New York, fra il fiume Hudson e la baia di Manhattan, il simbolismo esplicito originario si arricchì anche dello spirito di accoglienza. All’altro capo del mondo, oggi – affacciato sulle sponde del Mediterraneo verso l’Africa – un altro simbolismo ci parla di migrazione. Al di qua: la terra d’approdo. Dove un popolo nobile per valori, principi e cultura, sta invecchiando. Ondate di migranti arrivano attraversando il Mediterraneo, partendo da terre amare, fustigate e rese sterili da guerre; depredate delle loro ricchezze, messe in ginocchio da carestie. Essi sognano un futuro altrimenti impossibile, se non lontano da lì. A segnare la soglia tra il mare e la Sicilia, si erge la Porta del Mediterraneo o Porta di Lampedusa di Mimmo Paladino. È la prima frontiera: il primo lembo di terra, “La porta dell’Europa”. Il portale non vuol essere soltanto un monumento, ma la meta che accoglie e mette al sicuro. Parla a chi spera, e al contempo commemora chi ha sognato di “arrivare “, senza riuscirci. Come tutte le porte – “archetipi architettonici” – scrive Trione nel saggio “Artivismo. Arte, politica, impegno” – costituisce una “figura di passaggio, di separazione e di congiunzione”. La porta, infatti, è la soglia: può dividere ed anche unire; ma segna, soprattutto, un passaggio. Marca un cambiamento, talvolta un auspicio di crescita. Il Portale di Padalino è un punto di passaggio, “un foro che assorbe e riflette la luce del sole e della luna”. È un invito per chi arriva, ma anche per chi, da questa parte della soglia, attende. Parla di accoglienza, di soccorso verso il naufrago, di umanità. Scandisce il tempo di una tregua dalla fatica e dalla disperazione. Migranti disperati nel corso dei secoli, lasciato tutto alle spalle, hanno avuto intelligenza, visione e tanta disperazione per superare le proprie, personali, colonne d’Ercole. Che accoglienza troveranno “al di là della porta” i migranti dei nostri tempi? E noi, “al di qua” che cosa saremo capaci di offrire, che sia all’altezza dei nostri valori? Coloro che arrivano sperano. E noi? Daremo loro fiducia? O tenderemo fili spianti? La mente torna al messaggio simbolico dei manifesti di Tania Bruguera, artista e attivista cubana che, nel 2020, appese in varie strade di Milano un’immagine provocatoria: le dodici stelle della bandiera Europea collegate fra loro da fili di spine. Come ricorda Trione nel suo bellissimo saggio “Artivismo” (2022), il messaggio era simbolico ed anche esplicito perché recava la scritta: “The poor treatement of migrants today will be our dishonour tomorrow”: il trattamento umiliante oggi riservato ai migranti sarà “il nostro disonore di domani”. Pensiamoci con saggezza. Troviamo una strada d’umanità.