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Alla metà dell’Ottocento Émile Prisse d’Avennes, un egittologo francese, riportava in Europa dai suoi scavi e dalle sue ricerche egiziane un documento eccezionale. Si trattava di un papiro lungo sette metri, risalente al 1800 a.C. circa e proveniente – a quanto pare – dalla tomba di un alto funzionario dell’antica Tebe. Oggi il papiro è custodito presso la Biblioteca Nazionale Francese.

         Cosa contiene questo papiro? Nella prima parte si può leggere la fine degli “Insegnamenti per Gemnikaï”, futuro visir del faraone Snefru (IV dinastia, XXVII sec. a.C. ); poi seguono due metri di testo vuoto, cancellato già nell’antichità; quindi comincia un’opera dal titolo “Gli insegnamenti di Ptahhotep”. Anche quest’ultimo fu un visir, vissuto ai tempi del faraone Djedkara Izezi (V dinastia, XXV-XXIV sec. a.C.), e il testo riporta le sue massime indirizzate al figlio, che l’avrebbe dovuto sostituire nel ruolo di visir presso il re.

        Il papiro Prisse, redatto in una elegante scrittura ieratica (la scrittura usata dagli scribi egizi per lettere, documenti amministrativi, testi letterari e altri contenuti che interessavano la corte e che non erano destinati ai monumenti, sui quali si preferiva il geroglifico), era dunque una raccolta di Insegnamenti, un genere letterario che ebbe grande fortuna nel Medio Regno. In questi scritti si immaginava che dei sapienti trasmettessero le loro conoscenze ai più giovani sotto forma di massime. È scritto in medio egiziano, considerato la fase classica della lingua. Si tratta di uno dei libri più antichi dell’umanità.

           In un noto passaggio del Papiro Prisse, Ptahhotep dice che il vero sapiente è colui che ascolta gli insegnamenti degli anziani. Invece colui che non lo fa, sta nell’ignoranza. Egli non impara, è come se fosse un morto vivente perché non sa vivere. Non ha stabilità. Ecco la frase, lapidaria, di Ptahhotep: Hr m.t anx ra nb,  “dicono di lui: è un morto vivente ogni giorno”.

            In un altro celebre passaggio del Papiro Prisse è scritto:

bjA.t=f jm m rx n srw, che si può tradurre “la sua attitudine (è) a (m) conoscenza (rx) degli (n) anziani/superiori (srw)”.

         Gli anziani sanno che colui che non presta ascolto alle loro parole è di indole malvagia, ribelle e infausta.

          Il sostantivo bjA.t=f è con pronome suffisso, quindi significa: il suo carattere, umore, attitudine.

           C’è una problematica filologica riguardo il termine jm. Per essere preposizione con significato di “dentro”, deve essere seguita da un sostantivo, inoltre non può possedere lo yod prostetico (solo m). Quindi gli studiosi elaborano queste ipotesi:

  • è in stato pronominale (ma qui non è il caso perché non seguito da un pronome suffisso) o è nisbe (jmy, ma si scrive con la croce e doppia yod, quindi non è questo il caso)
  • è avverbio di luogo che vuol dire “li”, derivato di m con yod prostetico, usato in senso assoluto
  • è aggettivo dimostrativo con valore di “quello” . Ad esempio in bAk jm, quest’umile servo = quel servo li. È una forma di umiltà, usata nelle comunicazioni epistolari da un inferiore quando scrive ad un superiore.  A differenza degli altri deittici, pf, pn, pa, ta, pfa, tfa, e così via. È sempre un aggettivo dimostrativo, non può mai funzionare come pronome dimostrativo, deve sempre essere accompagnato da un sostantivo. La forma jm è indeclinabile, è un avverbio aggettivato.  

          Pertanto nel presente passo del Papiro Prisse abbiamo due ipotesi grammaticalmente possibili:

  • aggettivo dimostrativo, quello (“quel suo carattere”)
  • avverbio di luogo, li  (“il suo carattere è li”, poco probabile).   

         Mathieu traduce: “Son comportement est là, au su des magistrats”.

         Un’altra civiltà nella quale la parola era fondamentale è costituita da quella indiana. Il Ṛg-Veda, datato con certezza non dopo il XV secolo ma probabilmente redatto con materiale ben più antico, costituisce uno dei libri più antichi dell’umanità. È il primo dei quattro Veda principali (Saṃhitā), i testi sacri dell’induismo. Il termine sanscrito ṛg vuol dire “canto, inno”, quindi il libro sacro è una raccolta di inni a varie divinità offerti in occasione del sacrificio (yajña).

           La parola sanscrita “veda” vuol dire “conoscenza” (con una sfumatura di visione-intuizione)  e ha la stessa radice indoeuropea del perfetto fortissimo greco oida, “ho visto”, quindi “so”, e del nostro “vedere”. In uno stadio preistorico avevamo la forma greca *Foida, pronunciata “voida”, ma in sanscrito la /v/ si conserva mentre in greco cade, si conserva anche in latino (video, donde il nostro “vedere”). Bisogna sapere che i fonemi indoeuropei /a/, /e/, /o/ corrispondono al sanscrito /a/, per cui avevamo all’inizio la forma sanscrita *vaida (per la stessa ragione in sanscrito il verbo essere è asti, in greco è esti). In seguito il dittongo sanscrito /ai/ si monottonga in /e/, da ciò deriva la forma finale: veda.  

           Per capire l’importanza della parola nel mondo vedico bisogna dire che il sacrificio costituisce per il mondo indiano l’atto umano più importante in quanto permette la sussistenza dell’universo stesso, garantendone l’equilibrio e l’armonia. Se il sacrificio si accompagna, oltre alla vittima sacrificale oppure al liquido Soma da versare sul fuoco, precisamente a delle formule sacre e a degli inni, allora la Parola (Vāc) riveste un rilievo assoluto, capitale.

        In Ṛg-Veda 1.2.9 è scritto:

kavī no mitrāvaruṇā tuvijātā urukṣayā | dakṣaṃ dadhāte apasam,

che si può rendere così: “Saggi Mitra e Varuna, fate prosperare il nostro sacrificio e aumentate la nostra forza; siete nati per il bene di molti, siete il rifugio di moltitudini” (Wilson)

          Nel mondo vedico il sacrificio mantiene l’ordine dell’universo in quanto fa stare in sintonia uomini e divinità.

           Questo verso vedico è nel più importante metro dei Veda, detto gāyatrī, composto da ventiquattro sillabe disposte secondo una terzina di otto sillabe ciascuna.

           Ecco la scansione metrica:

kavī iti | naḥ | mitrāvaruṇā | tuvi-jātau | uru-kṣayā | dakṣam | dadhāteiti | apasam.

           Mentre l’egiziano antico è una lingua isolata (non imparentata con nessuna, un po’ come il giapponese), il sanscrito è una lingua indoeuropea.      

          Le lingue indoeuropee si suddividono in:

  • Lingue neolatine (dette così perché derivano dal latino): italiano, francese, castigliano (spagnolo), portoghese, rumeno, provenzale, catalano, sardo e ladino
  • Lingue germaniche: inglese, tedesco, islandese, olandese e lingue scandinave
  • Lingue celtiche
  • Lingue anatoliche (ittita cuneiforme, ittita geroglifico, luvio, palaico)
  • Greco (miceneo, greco arcaico, classico, ellenistico o koiné, medioevale, moderno)
  • Tocario
  • Albanese: proviene dalla lingua illirica
  • Lingue slave: ucraino, sloveno, croato, macedone, bulgaro, russo, bielorusso, polacco, slovacco e ceco
  • Lingue baltiche: lituano, antico prussiano, lettone
  • Lingue arie: sanscrito vedico, sanscrito classico, avestico, iranico. Le lingue indoarie sono idiomi indiani di origine indoeuropea che si sono evoluti in queste tappe: vedico, sanscrito, pracriti, apabhraṃsha, lingue indoarie moderne (hindi, bengalese, urdu, e così via).

          Anche il greco, come abbiamo visto, è una lingua indoeuropea, alquanto a sé stante e molto antica. In greco antico è scritta l’Iliade, il più antico poema omerico, che costituisce la prima testimonianza di letteratura d’arte occidentale.

         La lingua omerica è una mistione di più dialetti greci, come è stato notato già da autori antichi (pensiamo soltanto allo Pseudo-Plutarco, in Sulla vita e la poesia di Omero, B 8), non considerando però l’assenza del dorico (oggi alcuni tratti “dorici“ come la alfa, si spiegano in chiave conservativa del greco comune).

    È fuor di dubbio che il greco omerico è essenzialmente ionico, il quale si separa dall’attico per tratti fondamentali come l’assenza della alfa pura. Sono presenti anche alcuni atticismi soprattutto in caratteristiche di natura ortografica (tessares invece dello ionico tesseres; la particella mēn, le cui funzioni sono svolte nello ionico da men).

    Vi è una cospicua presenza di fatti eolici, tanto da indurre alcuni studiosi a pensare ad una origine eolica dell’epica (addirittura F. Fick voleva riportare l’epica omerica alla sua presunta originaria natura eolica: Die homerische Odyssee in der ursprunglichen Sprachform wiederhergestellt, Gottingen 1883). Pensiamo soltanto a tratti come: geminazione dei gruppi –sn e -sm; desinenza di dativo –essi; infiniti in –men, -menai; la labiovelare trattata eolicamente (pisures, “quattro “, invece di tessares).

    Molti i tratti che si ritrovano in miceneo, e che sono in genere conservativi: terminazione –oio del genitivo singolare della II declinazione; il genitivo singolare –aō della I declinazione insieme al genitivo plurale – aōn; la desinenza -fi.

    Ci sono vari elementi che mostrano una evoluzione linguistica: il particolare uso dell’articolo rivela uno stadio linguistico in cui era assente, stadio compresente insieme ad un altro nel quale c’è il passaggio dal valore di dimostrativo a quello proprio di articolo; l’ uso facoltativo dell’aumento rivela sempre uno stadio antichissimo in cui non era sempre usato, come nell’indoeuropeo (quest’ultima, lingua che aveva l’ingiuntivo, verbi con desinenze secondarie ma senza aumento; ma aveva anche il preterito, verbi con desinenze secondarie con aumento). L’uso facoltativo dell’aumento lo abbiamo anche nel vedico.

       Drewitt osservava che l’aumento è usato alla stregua di un preverbo nei verbi composti e che quindi anticamente era usato separatamente, poiché  la particella de, che tiene sempre il secondo posto, non si trova quasi mai dopo un verbo con aumento.

          Un’altra compresenza di elementi di epoche diverse è costituita dall’assenza di contrazione (la “distrazione“ omerica potrebbe essere lo stadio intermedio fra forme non contratte e contratte).

    Una delle opinioni più diffuse oggi è che la lingua omerica si formò intenzionalmente come composita. Probabilmente si tratta, fin dall’inizio, di una lingua letteraria, che non corrisponde a nessuna parlata particolare. Pensiamo soltanto a forme ibride come ken (ke eolico + ny efelcistico ionico); oppure all’uso del duale rispetto al plurale, che è senza altra ragione di scelta se non la facilità con cui l’una forma o l’altra entravano nel verso.

        L’epos omerico probabilmente ha viaggiato per quasi tutta la Grecia, assimilando i vari dialetti. Per questo i greci hanno guardato all’Iliade e all’Odissea come ai testi fondamentali della loro letteratura: accogliendo i vari dialetti l’epos omerico è il testo “panellenico” per eccellenza.

         Nel 1834 il filologo tedesco Ritschl avanzò la teoria che l’epos omerico avesse preso avvio nel Peloponneso (fase acheo-eolica), per poi spostarsi in Asia minore (fase eolica) dove venne elaborato, per finire in una terza fase sempre in Asia Minore, dove esso fu ampliato e ricevette la coloritura ionica. Pertanto, il dialetto ionico, che costituisce quello più abbondante in Omero, non sarebbe il più antico (come invece voluto da Aristarco), bensì la fase terminale. 

       Tuttavia, come abbiamo detto, la lingua omerica non è mai stata parlata, avendo in sé caratteristiche che la rendono unica (si parla di Kunstsprache, cioè “lingua d’arte”).

        Oltre alle forme ibride, alle quali abbiamo accennato, questa lingua possiede anche un metro, l’esametro dattilico, che non è di origine greca né indoeuropea. Meillet notava che l’esametro, come i metri giambici e trocaici, si basa sul principio della Isocronia (le posizioni di una sillaba lunga e due brevi sono intercambiabili, così da avere un numero di sillabe molto variabile nel verso), invece i metri eolici, così come altri versi indoeuropei come quelli vedici e il saturnio latino, si basano sul principio dell’Isosillabismo (numero fisso di sillabe per verso). Meillet quindi concludeva che, mentre i versi eolici sarebbero i discendenti diretti di quelli indoeuropei, invece il verso omerico, così come i metri giambici e trocaici, non deriverebbe da una naturale evoluzione della lingua, ma sarebbe artificiale, cioè creato in un secondo momento dai greci, forse proveniente da popolazioni preindoeuropee stanziate attorno all’Egeo (minoiche).   

          Oggi i filologi omerici sono convinti che l’epos omerico risalga a un periodo ben più antico delle tavolette micenee (che sono datate al XV secolo a.C circa). Bisogna dire che l’esametro è un verso talmente perfetto che non nasce con l’Iliade, ma dovette esserci una lunga gestazione poetica che ebbe come punto di approdo i poemi omerici. In passato si pensava a una prima fase achea dell’epica, corrispondente alla fine del mondo miceneo, cioè i cosiddetti secoli bui. Oggi i dati archeologici spingono a vedere i primordi dell’epica omerica più indietro nel tempo, cioè in piena età del bronzo.

          Prima del XV secolo e diversamente dalle epoche successive i guerrieri usavano scudi che coprivano tutto il corpo: ci sono formule omeriche che contemplano armamentari del genere (aspidos amfibrotēs, “… scudo che copre un mortale”). Oltre alla ricerca archeologica in Omero ci sono anche dati linguistici che fanno pensare a uno sviluppo anteriore al greco della scrittura Lineare B (con cui sono vergate le tavolette micenee): per esempio, la tmesi (separazione della preposizione dal relativo verbo) è frequentissima in Omero, ma assente nella Lineare B, quindi questo fenomeno linguistico precedette con ogni probabilità il greco delle tavolette micenee, essendo caratteristica di una lingua poetica indoeuropea.

           Inoltre, dati linguistici recenti rivalutano anche i tratti omerici comuni al miceneo, che prima si pensava fossero entrati in Omero dalle tavolette in Lineare B. Quindi questi tratti non sarebbero micenismi bensì caratteristiche comuni a tutto il greco, anche il miceneo, ma non esclusivamente (per esempio la terminazione –aōn si conserva anche nei dialetti eolici dove subisce una contrazione in –ān).  

           Parry scoprì che l’epos omerico nasce dalla oralità, cioè non ebbe una origine scritta. Lo dimostrò dalle formule, cioè da epiteti che ricorrono con molta frequenza e che si inseriscono in posizioni precise del verso. Il formulario di chi compose l’epica era costituito da “spezzoni” da inserire in sedi delimitate del verso, che venivano usati durante la gestazione orale dell’Iliade e dell’Odissea.

             Sin dai tempi più antichi ci sono testimonianze per le quali gli scrittori mettono per iscritto “detti”, prima formulati oralmente. Il sapiente biblico Qoelet ci ha lasciato scritto (12, 9): “Oltre a questo Qoelet, che fu sapiente, insegnò la scienza al popolo; esaminò, scrutò, compose gran numero di massime, we’izzen weḥiqqer tiqqen meshalim harbeh”. 

         L’epos omerico, dopo lunghissima gestazione orale che passò per tutta la Grecia, venne messo per iscritto sotto Pisistrato nel VI secolo a.C. E gli studiosi hanno cercato di ravvisare delle somiglianze tra questa figura politica e i personaggi dei poemi omerici, come se questi fossero stati modellati appositamente sulla vita di Pisistrato durante la redazione (la critica attuale riconosce questi collegamenti soprattutto con Odisseo).

         Gli studi inaugurati da Parry sulla gestazione orale dei poemi di Omero (che quindi non ne sarebbe l’autore, ma probabilmente uno dei tanti cantori), vengono oggi applicati anche a letterature non europee. Okpewho lo fa a forme di arte orale come l’epica africana. Eoyang ha mostrato come il trascurare la psicodinamica della oralità abbia causato errori di interpretazione a proposito della antica narrativa cinese. Zwettler si è occupato della poesia classica araba. Rosenberg ha studiato la sopravvivenza della oralità nei predicatori itineranti americani. E così via. 

           È difficile per una cultura della scrittura come la nostra immaginare cosa sia una civiltà orale. Noi oggi quando scopriamo qualcosa, per esempio troviamo la soluzione a un problema matematico, la mettiamo per iscritto. Ma come facevano le culture orali a ricordare qualcosa senza scriverlo? Il problema si pone soprattutto per qualche cosa da ricordare che sia articolato e complesso. Evidentemente usavano la mnemotecnica, vale a dire formule strutturate ritmicamente per essere ricordate: con contenuto musicale, orecchiabile, con strutture di tesi e antitesi, con allitterazioni e assonanze, con temi standard, con proverbi ripetitivi.

           È insomma quello che Parry ha scoperto nell’epica omerica. Quanto più è sofisticato il pensiero che si organizza oralmente, tanto più è caratterizzato da frasi fatte, cioè da schemi convenzionali da usare all’occorrenza, come le formule e gli epiteti, i proverbi, e così via.  

            Non stupisce quindi che la poesia orale di tutti i popoli sia fatta in metrica e accompagnata dalla musica. In Grecia il termine mousikē designò la poesia nel suo complesso come connubio di parola, canto, musica e danza. I termini più frequentemente usati per indicare la persona del poeta greco furono in età arcaica aoidos (cantore) e a partire dal V secolo a.C. melopoios (facitore di canti).

Bibliografia

  • A. C. Cassio (a cura di), Storia delle lingue letterarie greche, Milano 2016;
  • P. Chantraine, Grammaire homérique, 2 voll., Paris 1963;
  • J. A. J. Drewitt, “The Augment in Homer”, in The Classical Quarterly VI (1912) pp. 44-49, 104-120;
  • B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Milano 2017;
  • W. J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna 2014;
  • M. Parry, The Making of Homeric Verse, Oxford 1971.