Con Maria, Pablo Larraín firma il capitolo conclusivo della sua trilogia dedicata alle icone femminili del Novecento, dopo Jackie e Spencer. Come sempre, il regista va oltre la ricostruzione biografica, trascendendo il semplice racconto della vita di Maria Callas per offrire al pubblico un’opera che è un viaggio nei tormenti interiori della diva. La scelta di Angelina Jolie per incarnare la soprano potrebbe sembrare rischiosa: la somiglianza fisica è relativa, l’attrice non canta e la sua presenza scenica è ben diversa da quella della Callas. Eppure, come in un’opera lirica, ciò che conta non è il realismo, ma l’impatto emotivo. Jolie, interpretando la Callas, ne restituisce l’essenza: una diva il cui corpo si disgrega mentre la sua voce resta immortale. Il fulcro del film è l’ultima settimana di vita della cantante, rinchiusa nel suo appartamento parigino, tra ricordi, fantasmi e tormenti. La macchina da presa la segue come una presenza silenziosa, testimone del suo declino fisico e della sua persistenza artistica. La Callas di Larraín non è solo una donna che muore, è un’anima che cerca un senso nella propria esistenza, che ripercorre i frammenti della sua carriera, del suo amore devastante per Aristotle Onassis, delle umiliazioni e delle glorie, in un montaggio onirico che sfuma il confine tra realtà e sogno. L’uso della musica è centrale: non è un semplice accompagnamento, ma la vera architettura emotiva del film. Ogni aria scelta diventa un contrappunto simbolico, un’eco delle emozioni della protagonista. Visivamente, Maria è un’opera ipnotica, in cui Larraín sperimenta soluzioni stilistiche raffinate: il bianco e nero dei flashback e i colori desaturati evocano una vita che si spegne. Più che raccontare Callas, il film la interroga. Chi era davvero Maria Callas? sembra chiedersi Larraín. Maria è prigioniera di uno spazio mentale prima ancora che fisico, un teatro interiore in cui si replica ossessivamente la tragedia di una donna che ha vissuto solo per il canto. Eppure, dietro la leggenda, c’era una donna che soffriva e si domandava se ne fosse “valsa la pena”. Il film non offre risposte, ma lascia sospese le domande, come un ultimo accordo che non si risolve, come un acuto che continua a vibrare anche dopo il sipario.
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